giovedì 17 maggio 2018

Trust ed art. 2929 bis c.c.

Il trust è un istituto, mutuato dal diritto anglosassone, con cui un soggetto costituisce con uno o più beni un patrimonio separato, finalizzato ad uno scopo determinato o a più scopi. Si tratta, dunque, di uno strumento che fino a poco tempo fa era sconosciuto in Italia perché era incompatibile con le regole del nostro sistema giuridico, divenuto operante anche nel nostro paese a partire dal 1992, anno in cui l’Italia ha ratificato la convenzione dell’Aja del 1985 sul riconoscimento di questo istituto e sulla legge applicabile ad esso. 
Il successo di questo istituto deriva dalla sua estrema flessibilità e duttilità, che lo rende idoneo a raggiungere, con riferimento al nostro ordinamento, risultati giuridico economici di notevole rilievo, irraggiungibili per altre vie. Di volta in volta, infatti, il trust potrà conseguire, più o meno lecitamente, gli stessi traguardi del negozio di fondazione, del fondo patrimoniale, del mandato, del patto commissorio o di qualsiasi altro negozio di garanzia, della sostituzione fedecommissaria, del negozio fiduciario; il tutto, però, senza incorrere nelle sanzioni e nei divieti previsti per queste figure.
L'esperienza giurisprudenziale ha dimostrato che il trust, in numerose occasioni, viene utilizzato in forma elusiva e con finalità diverse rispetto a quelle sue proprie e, in tali casi, mutuando sempre dalla terminologia anglosassone, si definisce come “Sham Trust”, che letteralmente si può tradurre come trust fittizio / simulato.
Secondo l'art. 2 della menzionata convenzione dell'Aja del 1985, il trust ricorre quando un soggetto - detto settlor - sottopone dei beni, con atto mortis causa o inter vivos, sotto il controllo di un altro soggetto - detto trustee - nell’interesse di un beneficiario o per un fine specifico. La norma precisa altresì che i beni del trust costituiscono una massa distinta e giammai fanno parte del patrimonio del trustee, sia nel caso in cui siano a lui intestati sia nel caso in cui siano intestati ad altra persona; circostanza questa di estrema rilevanza, per i motivi di cui infra, per il caso che ci occupa.
Nel nostro paese il dibattito giurisprudenziale e dottrinario sul trust si è da sempre incentrato su tale dicotomia fra il momento formale e quello sostanziale del diritto di proprietà; il punto è che i beni del trust è come se rimanessero senza titolare o, meglio ancora, è come se si trattasse di beni la cui titolarità risulta sdoppiata: da una parte abbiamo la titolarità formale del trust, che spetta al trustee, e dall’altra la titolarità sostanziale, in capo al settlor. Dal momento che nel nostro ordinamento la proprietà non può essere sdoppiata – o perlomeno questa è l’opinione prevalente in dottrina e giurisprudenza - e la dissociazione tra titolarità e legittimazione non è ammessa, da più parti si è arrivati ad affermare l'incompatibilità fra tale istituto ed il principio della tipicità dei diritti reali. 
Pur riconoscendone l'interesse, è opportuno lasciare la discussione in questione a diversi palcoscenici, limitandoci però ad evidenziare il principio fondamentale ed innegabile che da questo dibattito scaturisce: il trustee non è proprietario dei beni conferiti in trust.
Il principio è di fondamentale rilevanza laddove posto in relazione, soprattutto con riguardo al tipo di azione da intraprendere, con le disposizioni contenute nell'art. 2929 bis c.c..
Il D.L. 27 giugno 2015, n. 83, convertito nella Legge 6 agosto 2015, n. 132, introduce nel codice civile, dopo l’art. 2929, la Sezione I-bis, intitolata “Dell’espropriazione di beni oggetto di vincoli di indisponibilità o di alienazioni a titolo gratuito”, la quale contiene solo l’art. 2929 bis, rubricato “Espropriazione di beni oggetto di vincoli di indisponibilità o di alienazioni a titolo gratuito”.
La relazione di accompagnamento al DDL di conversione afferma che si tratta di “un’azione semplificata, introdotta dal creditore non con un atto di citazione ma direttamente con il pignoramento e quindi contestualmente all’esercizio dell’azione esecutiva”, peraltro dichiarando che ciò che “non è scritto expressis verbis, per non indulgere in definizioni dottrinali, ma si evince dal complessivo impianto”. Il legislatore, insomma, ha assunto, nel confezionare la norma, un atteggiamento pragmatico, preoccupandosi esclusivamente di individuare il mezzo di tutela del creditore.
L’art. 2929 bis c.c. rappresenta dunque una norma di rottura rispetto al sistema dell’espropriazione immobiliare vigente sino alla sua introduzione. Si ammette infatti l’espropriazione di un bene che non è del debitore, non è stato concesso in garanzia dal suo titolare, di regola sarà libero da formalità pregiudizievoli e lo si rende, nella sostanza, di fatto inalienabile per un anno dal negozio di disposizione.
A seguito dell’entrata in vigore dell’art. 2929 bis c.c. l’esistenza del pregiudizio può essere semplicemente “affermata” dal creditore, senza alcun controllo preventivo, e tale “affermazione” avviene, implicitamente, con l’esercizio dell’azione esecutiva. Il controllo avviene quindi ex post, cioè a esecuzione forzata già iniziata.
L’azione prevista dall’art. 2929 bis c.c. può essere attivata dal creditore a fronte di un atto di alienazione gratuito compiuto dal debitore oppure a fronte di un atto costitutivo di un vincolo di indisponibilità. In entrambi i casi l’atto dovrà avere a oggetto un bene immobile oppure un bene mobile registrato.
Va inteso come atto costitutivo di “vincolo di indisponibilità” l'atto il cui effetto è quello di sottrarre ai creditori la disponibilità di un bene, che viene separato rispetto al residuo patrimonio del disponente. Una conferma in tal senso viene ancora una volta dalla relazione accompagnatoria al DDL di conversione del D.L., che indica quali esempi di atti costitutivi di vincoli di indisponibilità il fondo patrimoniale e, guarda caso, il trust.
Anche per gli atti costitutivi di vincolo di indisponibilità il presupposto applicativo è che essi siano compiuti a titolo gratuito, come si ricava chiaramente pure dalla lettera della norma.
Per quanto riguarda il rapporto tra tali atti e l’art. 2929 bis c.c. va preliminarmente osservato che il panorama giurisprudenziale italiano degli ultimi tempi è abbastanza univoco: in materia di trust, in particolare, si assiste a un continuo proliferare di sentenze che ne dichiarano l’inefficacia in quanto stipulato a danno dei creditori.
Per quanto concerne in quali forme debba essere avviata l’azione esecutiva in caso di atti di costituzione di vincoli di indisponibilità e, quindi, pure in relazione ai conferimenti di beni in un trust, non ci si può che attenere ad una interpretazione letterale della norma.
Il secondo comma dell'art. 2929 bis c.c. dispone testualmente che “quando il pregiudizio deriva da un atto di alienazione, il creditore promuove l'azione esecutiva nelle forme dell'espropriazione contro il terzo proprietario”.
Lo specifico riferimento ai soli atti di alienazione porta ad escludere che, per gli atti di costituzione di vincoli di indisponibilità, quali tipicamente i conferimenti di beni in un trust, l’esecuzione possa essere eseguita nelle forme dell’espropriazione presso il terzo proprietario.
Occorre, inoltre, ricordare che la giurisprudenza di legittimità, chiamata più volte a dirimere casi in cui si era dato impulso ad azione revocatoria ordinaria in danno trust, in particolare in quelli sorti in ambito familiare, ne ha sempre riconosciuto la natura gratuita affermando che “l'istituzione di trust familiare non integra, di per sé, adempimento di un dovere giuridico, non essendo obbligatoria per legge, ma configura - ai fini della revocatoria ordinaria - un atto a titolo gratuito, non trovando contropartita in un'attribuzione in favore dei disponenti” (ex pluruimis Cassazione civile, Sez. III, 03/08/2017, sentenza n. 19376).
Concludendo, seppur appare preferibile seguire il tenore letterale della norma e, quindi, ritenere preferibile quando si agisce in presenza di un trust, quanto previsto dal primo comma dell'art. 2929 bis c.c., è bene ricordare che alcune sentenze di merito optano, invece, per l'esperibilità dell'azione nelle forme dell'espropriazione contro il terzo proprietario. 

mercoledì 30 marzo 2016

Cessazione società responsabilità soci e liquidatori.

I creditori sociali insoddisfatti, una volta venuta meno la compagine sociale, possono sì rivolgersi contro i soci ma, si tenga ben presente, solo ed esclusivamente sino alla concorrenza delle somme da questi riscosse e risultanti dal bilancio finale di liquidazione e dal piano di riparto.
Allo stesso modo, i creditori insoddisfatti, onde potersi attivare nei confronti del liquidatore per ottenere la tutela delle proprie pretese, sono tenuti a dimostrare che il loro mancato soddisfacimento è dipeso da condotte dolose ovvero colpose del liquidatore medesimo.
Le società di capitali sono caratterizzate dalla totale autonomia del patrimonio, unico bene deputato a soddisfare i creditori nei limiti della sua capienza, peculiarità a cui consegue la limitazione della responsabilità dei soci alla sola partecipazione, sia essa quota od azione, da essi posseduta.
L’eventuale coinvolgimento dei soci posteriormente alla cancellazione della società può avvenire unicamente sul presupposto che i soci stessi abbiano percepito, attraverso il bilancio finale di liquidazione, parte delle attività destinate alla soddisfazione dei creditori sociali. In altre parole, occorre l’avvenuta dimostrazione che vi sia stata una concreta attribuzione patrimoniale, in base al predetto bilancio, circostanza che determina ex lege l’assunzione in capo al socio anche di una corrispondente quota parte dei debiti sociali rimasti insoddisfatti. 
L'aver percepito somme a seguito della liquidazione costituisce il fondamento della pretesa che i creditori sociali possono far valere nei confronti del socio, il limite della medesima, invece, deve essere individuato nella impossibilità di agire nei confronti del socio per importi superiori a quelli percepiti in sede di liquidazione perché, se così non fosse, si snaturerebbe l'essenza stessa delle società di capitali.
La materia è regolata dal secondo comma dell'art. 2495 c.c., il quale pone un limite quantitativo alle richieste che i creditori sociali possono avanzare nei confronti dei soci, atteso che essi, come visto, possono pretendere solo le somme riscosse dai soci in base al bilancio finale di liquidazione. La norma in questione si colloca appieno nel principio cardine degli istituti giuridici che regolano le società di capitali, consistente nella limitazione della responsabilità dei soci: in dette compagini delle obbligazioni sociali risponde soltanto la società con il suo patrimonio ai sensi degli artt. 2325 e 2462 c.c.
Ed allora, se i soci rispondono solo con il patrimonio della persona giuridica a cui appartengono durante societate, non si capisce per quale ragione questi, come pretenderebbero i ricorrenti, dovrebbero rispondere in misura maggiore dopo la sua estinzione. Le somme ripartite fra i soci all'esito della liquidazione altro non sono che il patrimonio residuo della società, ossia quello in relazione al quale si era originariamente limitata la responsabilità verso terzi. 
In virtù di quanto appena detto e degli oneri probatori che ne conseguono, diviene fondamentale, da parte di colui che agisce, dimostrare l’esistenza delle condizioni per l’azione e fornire tempestivamente le prove necessarie per far valere le proprie ragioni di credito.
Nei confronti del liquidatore le azioni di eventuali terzi creditori possono essere avanzate solo allorché sia dimostrata una responsabilità extracontrattuale in capo al medesimo. Infatti, non vi è alcun vincolo obbligatorio tra il creditore della società ed il liquidatore; inoltre, vi è un esplicito parallelismo, giusto richiamo dell’art. 2489 c.c., tra la natura della responsabilità dei liquidatori e quella prevista in materia di responsabilità degli amministratori.
Più precisamente, si evidenzia che l’art. 2394 c.c. sanziona, a titolo di responsabilità extracontrattuale verso i creditori sociali, le eventuali condotte degli amministratori poste in essere con inosservanza degli obblighi inerenti la conservazione dell’integrità del patrimonio sociale. Identica responsabilità, peraltro soggetta alla prescrizione quinquennale decorrente dall’iscrizione della cancellazione della Società dal Registro delle Imprese, è posta in capo al liquidatore.
La natura di responsabilità extracontrattuale impone al creditore che agisce l’onere di dimostrare l’esistenza, nel bilancio finale di liquidazione, di una massa attiva che sarebbe stata sufficiente a soddisfare, in tutto o in parte, le proprie ragioni e che, invece, è stata distribuita ai soci od utilizzata per pagare solo taluni dei creditori in danno di altri.
In alternativa deve essere dimostrato, sempre ad onere di colui che agisce, che il liquidatore ha posto in essere una condotta colposa o dolosa con la quale abbia, in sostanza, impedito la costituzione o la conservazione del patrimonio attivo nell’interesse sia dei soci che dei creditori come, a mero titolo di esempio, il non aver attivato le opportune azioni di recupero di crediti esigibili ovvero depauperando il patrimonio. 

venerdì 4 marzo 2016

OPA risarcimento danni azionisti di minoranza.

La Cassazione, chiamata ad intervenire sulle vicende che hanno interessato una nota Società di assicurazioni, ha stabilito che "la violazione dell'obbligo di offerta pubblica di acquisto della totalità delle azioni di una società quotata in un mercato regolamentato fa sorgere in capo agli azionisti, ai quali l'offerta avrebbe dovuto essere rivolta, il diritto al risarcimento del danno patrimoniale ex art. 1218 c.c., in quanto le azioni restitutorie non elidono il danno subito dagli azionisti di minoranza con la perdita della possibilità di beneficiare del maggior prezzo di vendita delle loro azioni".
Con la decisione in oggetto i Giudici di legittimità ha ribadito l'orientamento già espresso in passato, secondo il quale le misure restitutorie tendono a disincentivare la violazione così da tutelare l'interesse generale ad un corretto funzionamento del mercato, ma non escludono il diritto al risarcimento del danno subito dagli azionisti di minoranza, che non hanno avuto la possibilità di beneficiare del maggior prezzo di vendita dei titoli.
La Suprema Corte nel dirimere la controversia ha affermato che "dall'obbligo di offerta pubblica deriva ipso iure per gli azionisti di minoranza la possibilità di scegliere se conservare la partecipazione nella società bersaglio, nonostante il cambio della guardia nella governance della società, ovvero se conseguire il vantaggio della vendita ad un prezzo maggiorato per l'inclusione del premio di maggioranza. Dalla violazione dell'obbligo di offerta consegue, pertanto, la perdita della chance di acquisto vantaggioso, rilevando soltanto che, se l'obbligo di offerta pubblica fosse stato adempiuto, i soci di minoranza avrebbero avuto una vantaggiosa occasione di disinvestimento".
Gli Ermellini hanno inoltre evidenziato che "le misure restitutorie non sempre elidono integralmente le conseguenza dannose di un fatto illecito, specialmente nella fattispecie in esame in cui le sanzioni sono previste per disincentivare la violazione dell'obbligo di offerta totalitaria, vanificando gli obiettivi del trasgressore in funzione di tutela dell'interesse generale ad un corretto funzionamento del mercato, ma non hanno alcuna incidenza sulle conseguenze dannose subite dai soci di minoranza".

Cass. Civ., Sez. I, 10/02/2016 n. 2665

giovedì 10 dicembre 2015

Clausola claims made.

Sulla clausola in oggetto, che nella pratica trova larga applicazione nei contratti di assicurazione per la responsabilità civile, si è recentemente pronunciata la Corte di Cassazione, la cui decisione è stata massimata come segue.
"Qualora il contratto assicurativo preveda la clausola claims made nella parte del contratto, avente o meno la veste grafica di clausola, deputata in via esclusiva alla definizione dell'oggetto della copertura assicurativa, si deve ritenere che la limitazione di responsabilità sfugga all'art. 1341, secondo comma c.c., giacché la funzione limitatrice della claims made si estrinseca in una previsione o clausola contrattuale unitariamente deputata all'individuazione dell'oggetto del contratto e, quindi, opera all'interno della stessa previsione di tale oggetto e non in aggiunta ed all'esterno di essa. L'accordo delle parti su tale previsione si forma come accordo diretto a delimitare l'oggetto stesso del contratto e la limitazione di responsabilità fa parte ed è espressione di tale delimitazione e, dunque, vede stemperata ogni sua autonomia, sicché non assume il valore di “condizione" di per sé ed autonomamente rilevante, che necessiti del consenso qualificato.
Quando invece la clausola claims made si inserisce in un contratto come una specifica clausola, "condizione", che limiti la garanzia assicurativa e, dunque, l'oggetto del contratto siccome definito e comunque percepibile da altra clausola deputata alla sua individuazione, è allora che ricorre la fattispecie della vessatorietà, perché la formale previsione della clausola dopo altra idonea a definire in modo più ampio la garanzia, l'oggetto del contratto assicurativo, non appartiene più nell'economia del contratto all'individuazione dell'oggetto del contratto,  ma svolge, dopo una previsione a ciò diretta, almeno finché essa sola si legga, una funzione chiarificatrice ulteriore che assume carattere limitativo di ciò che nella precedente previsione era più ampio".
La clausola claims made viene correttamente inquadrata come vessatoria ogniqualvolta viene inserita al di fuori di degli articoli oggetto della copertura assicurativa e, come tale, deve essere espressamente accettata e sottoscritta con la doppia firma, ossia con sottoscrizione aggiuntiva rispetto a quella del contratto ai sensi degli artt. 1341 e 1342 c.c.
Non si ritiene, invece, vessatoria quando è inserita nell'oggetto stesso del contratto di assicurazione, in ciò che è risarcibile o meno poiché in tale ipotesi si presume contrattata dalle parti liberamente. 
Cass. Civ., Sez. III, 10/11/2015 n. 22891

martedì 1 dicembre 2015

Garanzia decennale a carico dell'appaltatore per le opere di ristrutturazione.

Con la decisione che appresso si riporta testualmente, la Corte di Cassazione ha riconosciuto in capo all'appaltatore l'obbligo di prestare la garanzia prevista nell'art. 1669 c.c. anche in caso di semplici opere di ristrutturazione.
In buona sostanza, la responsabilità di cui all'articolo del codice civile richiamato, ossia quella riguardante la rovina ed i difetti degli immobili, può essere invocata anche in caso di interventi di modificazione o riparazione attinenti edificio già esistente e non solo rispetto ad un immobile edificando.
Pertanto, anche gli autori di tali interventi non edificatori bensì di semplice ristrutturazione, sono tenuti a rispondere ex art. 1669 c.c. allorchè le opere realizzate abbiano una incidenza sensibile o sugli elementi essenziali delle strutture dell'edificio ovvero su elementi secondari od accessori, tali da compromettere la funzionalità globale dell'immobile stesso.
Si riporta la sentenza.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato l’8 maggio 1997 il Condominio di (omissis) evocava, dinanzi al Tribunale di Genova, la DI.MI. s.r.l. esponendo che nel corso del 1991 la società convenuta aveva effettuato lavori di straordinaria manutenzione presso lo stabile condominiale, riguardanti il rafforzamento dei solai mediante il getto di caldana di calcestrutto con rete elettrosaldata ed il rafforzamento delle rampe delle scale con la completa ricostruzione delle stesse in cemento armato; precisava che in data 28.6.1996 l’Amministratore denunciava alla appaltatrice il verificarsi nelle pareti esterne dello stabile di numerose macchie di umidità, in particolare, la presenza nelle pareti esterne lato nord/nord-ovest della facciata di molteplici fessurazioni a forma di grigliato, sia nella tinta sia nell’intonaco, che rendevano le facciate non più impermeabili, con il conseguente verificarsi di infiltrazioni di acqua piovana nei singoli appartamenti dei condomini, nonché vistose crepe nell’intonaco delle pareti e del soffitto dei locali scale ai vari piani, la inutilizzabilità delle finestre di areazione poste ad ogni piano e la collocazione errata dei telai delle persiane in alluminio; aggiungeva che fatta istanza all’appaltatrice dell’esecuzione di opere per l’eliminazione dei vizi, la stessa escludeva qualunque sua responsabilità, per cui chiedeva dichiararsi la responsabilità della convenuta per i danni occorsi, con sua condanna al risarcimento dei danni da quantificarsi in corso di causa. Instaurato il contraddittorio, nella resistenza della DI.MI. s.r.l., la quale negava essere stato concluso fra le parti il dedotto contratto di appalto, per avere ella eseguito i lavori di manutenzione straordinaria del Condominio in qualità di proprietaria esclusiva dello stabile, di cui poi aveva ceduto i singoli appartamenti, nonché decadenza dalla garanzia invocata per essere pervenuta la lettera di denuncia il 17.5.1996 a fronte dell’ultimazione dei lavori nel 1991, il giudice adito, precisati ex art. 180 c.p.c. da parte attrice gli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda (responsabilità della DI.MI. ex art. 1669 c.c.), accoglieva la domanda attorea e per l’effetto condannava la convenuta al pagamento della somma di Euro 28.090,71, oltre accessori, a titolo di danno.
In virtù di rituale appello interposto dalla DI.MI., con il quale insisteva nella inapplicabilità nella specie dell’art. 1669 c.c., per non essere le opere eseguite nello stabile di natura tale da involgere una responsabilità nel senso voluto dall’appellato, e nell’eccezione di decadenza, la Corte di appello di Genova, nella resistenza del Condominio, il quale proponeva anche appello incidentale sulla quantificazione del costo di ripristino, respingeva entrambi gli appelli.
A sostegno della decisione adottata la corte distrettuale evidenziava che il Condominio solo a seguito della consulenza tecnica di ufficio – effettuata nel corso del giudizio di primo grado dal geom. P. – era pervenuto ad una conoscenza seria ed oggettiva dei vizi, nonché delle conseguenze sulla struttura e sul godimento dell’immobile, in considerazione della natura dei difetti riscontrati (posizionamento completamente errato delle persiane in alluminio di tutte le finestre del fabbricato, presenza di molteplici fessurazioni nella tinta e nell’intonaco nelle pareti esterne lato nord e nord-ovest dello stabile, crepe nell’intonaco delle pareti e del soffitto dei locali scale nei vari piani, erronea fissazione ed allocazione delle finestre di areazione dei locali scale), per cui correttamente il giudice di prime cure aveva fatto riferimento alla data del suo deposito per la decorrenza dei termini per la denuncia ex art. 1669 c.c. e non già dalla lettera inviata dall’Amministratore il 17.5.1996.
Aggiungeva che nella specie trovava applicazione la responsabilità invocata, trattandosi di azione di natura extracontrattuale, che prescindeva dallo specifico rapporto negoziale derivante dall’appalto. D’altro canto alla appellante doveva essere riferita la responsabilità ex art. 1669 c.c. per la natura degli interventi eseguiti sul fabbricato che non potevano essere qualificati come di sola manutenzione straordinaria, avendo comportato l’accorpamento dei due edifici, aventi due diverse coperture, rifatte completamente le scale, realizzate in cemento armato, modificati i prospetti liberi con l’eliminazione degli archi sulle finestre e completamente ricostruiti due solai.
Concludeva che l’accertamento tecnico effettuato in primo grado aveva, altresì, consentito di accertare l’esistenza dei vizi lamentati alle parti in comune, dovuti proprio alle modalità costruttive utilizzate dalla DI.MI., per avere scelto tecniche e materiali inidonei. Gli accertamenti del c.t.u. apparivano corretti anche quanto alla quantificazione del costo di ripristino.
Per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Genova ha proposto ricorso la DI.MI. s.r.l., articolato sulla base di quattro motivi, al quale ha replicato il Condominio con controricorso.
Fissata pubblica udienza al 5.12.2014, la causa veniva rinviata a nuovo ruolo per l’acquisizione di delibera assembleare di autorizzazione dell’Amministratore a stare in giudizio, che veniva prodotta in data 18 febbraio 2015.
In prossimità della prima udienza di discussione entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative; la DI.MI. ha depositato altra memoria ex art, 378 c.p.c. anche in prossimità della ulteriore udienza di discussione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la società ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 1669 c.c. per avere il giudice di merito ritenuto che alla società fosse da attribuire la qualità di costruttore per lavori di manutenzione straordinaria, eseguiti nel periodo compreso fra il giugno 1988 ed il gennaio 1991, senza tenere conto che al momento dell’esecuzione dei lavori stessi ella era proprietaria esclusiva dello stabile de quo e che la natura delle opere realizzate corrispondeva a quelle contemplate nell’art. 31 lett. b) legge n. 457 del 1978, come da provvedimento autorizzatone n. 760 dell’11.9.1991 dei Comune di Genova, giacché anche le opere eseguite in variante erano state ritenute dallo stesso ente locale per tipologia e caratteristiche (qualitative e quantitative) perfettamente rientranti nella manutenzione straordinaria. In altri termini, la DI.MI. non avrebbe restaurato l’edificio, non avendolo consolidato, ripristinato e rinnovato negli elementi costitutivi di esso, ma semplicemente aveva rinnovato e sostituito parti, anche strutturali, di un edificio già interamente edificato da terzi, avente ben precise caratteristiche costruttive, non modificate dagli interventi della ricorrente, per cui non poteva essere a lei attribuita la qualifica di costruttore. A conclusione del mezzo viene formulato il seguente quesito di diritto: “Viola o applica falsamente l’art. 1669 c.c. il giudice di merito che applica tale norma alle opere aventi ad oggetto le modificazioni o le riparazioni apportate ad un edificio preesistente o ad altre preesistenti cose immobili, destinate per loro natura a lunga durata e dichiara soggetto alla relativa responsabilità decennale per difetto di costruzione colui che materialmente le esegua, con conseguente condanna al risarcimento dei danni, come ha fatto la Corte di appello di Genova nell’impugnata sentenza, ritenendo responsabile ex art. 1669 c.c. la DI.MI. per i pretesi difetti delle opere di manutenzione straordinaria ex art. 31 lett. b) L. 457/78, eseguite nel periodo giugno 1988 – gennaio 1991 sul preesistente edificio di (omissis) , denunciati dal Condominio nel settembre 1996 e poi dal Condominio stesso fatti valere in causa nel 1997 ai fini della condanna della società ricorrente al risarcimento dei danni in forza dell’applicazione, appunto, dell’art. 1669 c.c.?”.
Il secondo motivo, con il quale la ricorrente insiste nella doglianza di violazione e falsa applicazione degli artt. 1669 c.c. e 31 l. 457/78, con riferimento alla accezione legislativa di manutenzione straordinaria, per non avere con i lavori de quibus alterato i volumi e la destinazione d’uso dell’edificio, pone il seguente quesito di diritto: “Viola o applica falsamente l’art. 31 lett. b) L. 457/78 il giudice di merito che esclusa la riconducibilità di opere edilizie nella categoria giuridica della manutenzione straordinaria, adducendo a tal fine soltanto la notevole portata dell’intervento edilizio e giudicando irrilevante la mancata alterazione dei volumi e della specifica destinazione del preesistente edificio oggetto di tali opere, come ha fatto la Corte di appello genovese nell’impugnata sentenza escludendo che i lavori eseguiti dalla DI.MI. fossero in realtà di manutenzione straordinaria, per avere costituito un intervento edificio di notevole portata, tale da investire direttamente i due fabbricati, anche se non ha alterato i volumi e la specifica destinazione?
Viola o applica falsamente l’art. 31 lett. b), c) e d) L. 457/78 il giudice di merito che, al fine di applicare alla fattispecie esaminata l’art. 1669 c.c., dopo avere escluso la manutenzione straordinaria, qualifichi le opere edilizie eseguite in un preesistente edificio come di ristrutturazione edilizia, assumendo come concreto parametro di giudizio per tale qualificazione non la tipologia di lavori elencati e specificati all’art. 31 lett. d) L. 457/78, bensì una nozione non tecnica, che prescinde dalla descrizione testualmente compiuta dalla norma?
Viola o applica falsamente l’art. 31 lett. b), c) e d) L. 457/78 il giudice di merito che, al fine di applicare alla fattispecie esaminata l’art. 1669 c.c., dopo avere escluso la manutenzione straordinaria, qualifichi come di ristrutturazione edilizia le opere eseguite in un preesistente edificio quantunque le stesse in concreto non abbiano affatto comportato la definizione e la ricostruzione del fabbricato con la sola conservazione di parte dei muri perimetrali e con la completa eliminazione delle strutture interne?
Viola o applica falsamente l’art. 31 lett. b), c) e d) L. 457/78 il giudice di merito che, al fine di applicare alla fattispecie esaminata l’art. 1669 c.c., dopo avere compiuto i passi in precedenza elencati, utilizzi la nozione di ristrutturazione come sinonimo di ricostruzione dell’edificio, come ha fatto la Corte di appello genovese inquadrando nella categoria della ristrutturazione edilizia ex art. 31 lett. d) L. n. 457/78 alcuni dei lavori eseguiti in via Sotto i Volti 14 dalla DI. MI. – consistiti nell’accorpamento di due diversi edifici attraverso lavori di raccordo fra due coperture, delle quali l’una a falsa e l’altra a terrazzo; nel rifacimento delle scale; nell’eliminazione degli archi sulle finestre; nella ricostruzione di due solai – quantunque tali lavori non abbiano affatto arrecato radicali modifiche sostitutive dell’edificio, né portato quest’ultimo ad essere un immobile del tutto diverso sa quello preesistente, non avendo la DI.MI. operato la demolizione e la ricostruzione del fabbricato con la sola conservazione di parte dei muri perimetrali e con la completa eliminazione delle strutture interne?”.
Le prime due doglianze – che possono essere trattate congiuntamente, data l’intima connessione, essendo entrambe rivolte a censurare le statuizioni dell’impugnata sentenza relative alla (in)sussistenza della responsabilità invocata, rilevanti sotto il profilo del sistema rimediale applicabile – non sono meritevoli di accoglimento.
La sentenza impugnata ha ritenuto sussistere la responsabilità della DI.MI. ai sensi dell’art. 1669 c.c. poiché è rimasto accertato che la stessa aveva acquistato l’intero fabbricato in questione da terzi, bene sul quale aveva poi curato di effettuare consistenti opere di ristrutturazione, e dopo averlo ripartito in porzioni, con la realizzazione di singole unità immobiliari, aveva provveduto alla vendita di ciascuno degli appartamenti con separati contratti.
Sostiene la ricorrente che la responsabilità per rovina e difetti di cose immobili (regolata dall’art. 1669 c.c.) dovrebbe essere ascritta alle sole ipotesi in cui siano riscontrabili vizi riguardanti la costruzione dell’edificio stesso o di una parte di esso, ma non anche in caso di modificazioni o riparazioni apportate ad un edificio preesistente o ad altre preesistenti cose immobili, anche se destinate per loro natura a (unga durata. In altri termini, ad avviso della DI.MI. anche le cause della rovina, dell’evidente pericolo di rovina o dei gravi difetti dovrebbero essere riconducibili direttamente a difetti del suolo o a vizi della costruzione pertinenti all’edificio (o alla diversa cosa immobile destinata per sua natura a lunga durata). La ricorrente fonda tale interpretazione sull’esegesi letterale della norma, la quale, quando usa la locuzione “opera”, alluderebbe agli edifici o alle altre cose immobili destinate per loro natura a lunga durata, che il legislatore richiama  nell’incipit della disposizione (“Quando si tratti di…”). Sicché la fattispecie delineata dalla norma sarebbe integrata solo quando, entro dieci anni dalla realizzazione dell’edificio o della cosa immobile destinata per sua natura a lunga durata, si prospettino rovina, evidente pericolo di rovina o gravi difetti, dipendenti da vizi del suolo o difetti della costruzione, afferenti all’edificio medesimo o alla cosa immobile interessata. La lettura prospettata dalla ricorrente avrebbe due precisi riflessi applicativi, uno di natura oggettiva e l’altro di natura subiettiva. Sotto il primo profilo, la norma avrebbe un ambito applicativo limitato ai difetti costruttivi inerenti alla sola fase genetica di realizzazione dell’edificio ovvero di una parte di esso, non già ai difetti eventualmente riconducibili ad interventi susseguenti all’edificazione dell’immobile, che apportino modificazioni o riparazioni ad un edificio preesistente o ad altre preesistenti cose immobili, anche se destinate per loro natura a lunga durata. Sotto il profilo soggettivo, la legittimazione passiva sostanziale, a fronte della proposizione dell’azione di responsabilità ex art. 1669 c.c., spetterebbe in via esclusiva all’appaltatore o al costruttore-venditore dell’edificio o della cosa immobile ovvero di una frazione di esso, al tempo della realizzazione originaria, non già ai soggetti che abbiano effettuato, successivamente alla realizzazione, interventi modificativi o riparativi (di manutenzione o di ristrutturazione o di ricostruzione). Ad avviso della ricorrente siffatta impostazione ermeneutica sarebbe avallata da due pronunce della Cassazione, secondo cui la responsabilità dell’appaltatore ex art. 1669 c.c. trova applicazione esclusivamente quando siano riscontrabili vizi riguardanti la costruzione dell’edificio stesso o di una parte di esso, ma non anche in caso di modificazioni o riparazioni apportate ad un edificio preesistente o ad altre preesistenti cose immobili, anche se destinate per loro natura a lunga durata (cfr. Cass. 20 novembre 2007 n. 24143; Cass. 22 maggio 2015, n. 10658). In applicazione del suddetto principio, nella prima sentenza evocata, la S.C. ha riformato la sentenza di merito che aveva ritenuto configurabile tale ipotesi di responsabilità in riferimento all’opera di mero rifacimento della impermeabilizzazione e pavimentazione del terrazzo condominiale di un edificio preesistente.
Secondo l’orientamento dalla giurisprudenza di legittimità, assolutamente costante, la lettera della norma giustifica una diversa impostazione ermeneutica, e ciò perché non a caso il legislatore discrimina tra “edificio o altra cosa immobile destinata per sua natura a lunga durata”, da un lato, e “opera”, dall’altro. L’opera cui allude la norma non si identifica necessariamente con l’edificio o con la cosa immobile destinata a lunga durata, ma ben può estendersi a qualsiasi intervento, modificativo o riparativo, eseguito successivamente all’originaria costruzione dell’edificio, con la conseguenza che anche il termine “compimento”, ai fini della delimitazione temporale decennale della responsabilità, ha ad oggetto non già l’edificio in sé considerato, bensì l’opera, eventualmente realizzata successivamente alla costruzione dell’edificio. Quanto ai difetti della costruzione, inoltre, l’etimologia del termine “costruzione” non necessariamente deve essere ricondotta alla realizzazione iniziale del fabbricato, ma ben può riferirsi alle opere successive realizzate sull’edificio pregresso, che abbiano i requisiti dell’intervento costruttivo.
La responsabilità ex art. 1669 c.c., pertanto, ben può essere invocata con riguardo al compimento di opere (rectius di interventi di modificazione o riparazione) afferenti ad un preesistente edificio o ad altra preesistente cosa immobile destinata per sua natura a lunga durata, le quali, in ragione di vizi del suolo (su cui la nuova opera si radica) o di difetti della costruzione (dell’opera), rovinino, in tutto o in parte, o presentino evidente pericolo di rovina ovvero gravi difetti (anche essi riferiti all’opera innovativa, non già all’edificio pregresso). Con la conseguenza che anche gli autori di tali interventi di modificazione o riparazione (rectius gli esecutori delle opere integrative) possono rispondere ai sensi dell’art. 1669 c.c. allorché le opere realizzate abbiano una incidenza sensibile o sugli elementi essenziali delle strutture dell’edificio ovvero su elementi secondari od accessori, tali da compromettere la funzionalità globale dell’immobile stesso (cfr. Cass. 4 gennaio 1993 n. 13; più di recente, segue la stessa linea interpretativa, Cass. 29 settembre 2009 n. 20853).
Nella specie la corte distrettuale, in adesione al costante insegnamento di questa Corte, secondo il quale l’estremo del grave difetto di costruzione, a differenza di quelli che determinano rovina totale o parziale dell’edificio, può anche consistere in una menomazione che, pur riguardando una parte soltanto dell’opera, incida sulla funzionalità della stessa, impedendole di fornire l’utilità cui è destinata per lungo lasso di tempo, ha ritenuto, con giudizio di fatto non suscettibile di sindacato in questa sede e saldamente ancorato alle risultanze dell’espletata indagine, che proprio tale ipotesi ricorreva nella fattispecie concreta. Infatti, la presenza nelle pareti esterne lato nord e nord-ovest dello stabile di molteplici fessurazioni a forma di grigliato e dello spessore di circa mm. 2/3 nella tinta e nell’intonaco, tali da rendere non più impermeabili dette facciate, le vistose crepe nell’intonaco delle pareti e del soffitto dei locali scale ai vari piani, l’erroneo posizionamento delle finestre di areazione dei locali scale, si da essere inutilizzabili, al pari dei telai che sostenevano le persiane in alluminio delle finestre di tutto il fabbricato, considerati nella loro globale incidenza, anche in prospettiva futura, sulla funzionalità e sull’utilità dell’opera, non possono che essere ritenuti gravi difetti.
Né sussiste, peraltro, l’asserita divergenza della sentenza impugnata con l’approdo ermeneutico di cui alle due pronunce di questa Corte sopra citate (Cass. n. 24143 del 2007 e Cass. n. 10658 del 2015), che lasciano intendere, pur nell’ambiguità dei riferimenti, più ad una diversa vantazione complessiva delle emergenze fattuali, piuttosto che configurare un vero e proprio contrasto sincrono di giurisprudenza.
Del pari nessun valore può essere attribuito con riguardo alla responsabilità di cui all’art. 1669 c.c. alle classificazioni urbanistiche predisposte dal legislatore al diverso fine del recupero di manufatti preesistenti: la differenza dei parametri di riferimento giustifica l’integrale responsabilità dell’appaltatore sia in presenza di interventi di manutenzione straordinaria sia in ipotesi di manutenzione ordinaria ai sensi dell’art. 31 della legge n. 457 del 1978. Infatti, ai fini della responsabilità dell’appaltatore, costituiscono gravi difetti dell’edificio non solo quelli che incidono in misura sensibile sugli elementi essenziali delle strutture dell’opera, ma anche quelli che riguardano elementi secondari ed accessori (impermeabilizzazioni, rivestimenti, infissi, ecc), purché tali da compromettere la funzionalità globale dell’opera stessa e che, anche senza richiedere opere di manutenzione straordinaria, possano essere eliminati finanche solo con gli interventi di manutenzione ordinaria indicati dalla lettera a dell’art. 31 della legge 5 agosto 1978 n. 457 e cioè con “opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici” o con “opere necessarie per integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti” (cfr. Cass. 1 febbraio 1995 n. 1164).
In applicazione del suddetto principio, la corte di merito, congruamente motivando sul punto, ha chiarito la notevole portata degli interventi realizzati, consistiti nell’accorpamento di due diversi edifici attraverso lavori di raccordo fra le due coperture, di cui una a falda e l’altra a terrazzo, nel rifacimento integrale delle scale, nell’eliminazione degli archi sulle finestre, nella ricostruzione di due solai, nel rifacimento degli intonaci esterni. Ed ha concluso affermando che le fessurazioni presenti sull’intonaco esterno rifatto dalla DI.MI. hanno determinato le infiltrazioni lamentate dal Condominio sulle parti comuni, le quali incidono in modo rilevante sulla struttura e sulla funzionalità dell’opus per cui si tratta di gravi difetti di costruzione, ciò anche in coerenza con la tipologia degli interventi descritti.
Anche con il terzo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1669 c.c. e dell’art. 31 L. 457/78 lamentando la riferibilità alla stessa di difetti di costruzione relativi a parti dell’edificio del tutto inalterate rispetto alle preesistenti caratteristiche costruttive. In particolare la corte di merito ha ritenuta la società responsabile per difetti relativi alle caratteristiche di conduzione del vapore delle murature perimetrali e del relativo intonaco che nulla ha a che fare con i lavori eseguiti sugli edifici. Così pure la responsabilità per i muri perimetrali ed i muri del vano atrio che è certo che non siano stati ristrutturati, essendosi la DI.MI. limitata al rifacimento dell’intonaco, per cui non può essere ritenuta responsabile della mancanza di camera d’aria. Né ha costruito i muri dell’atrio, per cui nessuna responsabilità ha per i danni da formazione di condensa nel vano in questione, avendo solo rifatto l’intonaco interno. A corollario del mezzo è posto il seguente quesito di diritto: “Viola o applica falsamente l’art. 1669 c.c. e l’art. 31 lett. B), c) e d) L 457/78 il giudice di merito che ritenga responsabile ex art. 1669 c.c., per gravi difetti della costruzione il venditore di un preesistente edificio assumendo che gli interventi edilizi in esso compiuti abbiano dato luogo ad una ristrutturazione rientrante in un progetto di ricostruzione del bene quando tali difetti riguardino opere e parti dell’edificio diverse da quelle esplicitamente addotte dal giudicante come oggetto della pretesa ristrutturazione?
Viola o applica falsamente l’art. 1669 c.c. e l’art. 31 lett. b), c) e d) L. 457/78 il giudice di merito che ritenga responsabile ex art. 1669 c.c. per gravi difetti di costruzione il venditore di un preesistente edificio assumendo che gli interventi edilizi in esso compiuti abbiano dato luogo ad una ristrutturazione rientrante in un progetto di ricostruzione del bene quando tali difetti riguardino opere di manutenzione straordinaria ex lett. b) del citato art. 31, eseguite su parti dell’edificio le cui originarie caratteristiche costruttive sono state lasciate del tutto inalterate, come ha fatto la Corte di appello genovese ritenendo la DI.MI. responsabile ex art. 1669 c.c. per i difetti lamentati dal Condominio attore con riguardo alla cattiva conduzione termina dei muri perimetrali e dei muri del vano atrio, che la DI. MI. non ha ricostruito, essendosi limitata al rifacimento dell’intonaco, che è opera di pura manutenzione straordinaria ai sensi della predetta norma?”.
Il motivo è inammissibile, prima che infondato, giacché comporta una valutazione in fatto sulla concreta sussistenza di conseguenze dannose nel patrimonio degli acquirenti riconducibili alle opere eseguite ed ai difetti lamentati sulle parti comuni.
La corte di merito ha, con apprezzamento congruamente motivato ed esente da mende logiche e giuridiche, per cui si sottrae alle censure della ricorrente, argomentato il proprio convincimento, facendo riferimento alle fessurazioni presenti sui muri perimetrali e alla mancanza di areazione dell’atrio. È evidente che, a fronte di dette argomentazioni, rese anche alla luce delle conclusioni tecniche espresse dall’ausiliare del giudice nel l’espletata consulenza d’ufficio, circa la ricorrenza di un preciso e ben delimitato nesso eziologico tra le fessurazioni sugli intonaci esterni rifatti dalla DI.MI. e sul vano atrio, da un Iato, e le infiltrazioni riscontrate all’interno del fabbricato, dall’altro, il sindacato teso a censurare tale rilievo causale importa una valutazione di merito, preclusa in sede di legittimità.
In ordine poi alla responsabilità del venditore (non originario costruttore del fabbricato) che ha attuato gli interventi di ricostruzione da cui discende il danno, è noto che la responsabilità ex art. 1669 c.c. può essere invocata anche a carico dell’alienante (cfr. Cass. 17 aprile 2013 n. 9370).
Con il quarto motivo è lamentata come error in procedendo la violazione dell’art. 112 c.p.c. per avere la corte di merito del tutto omesso di pronunciarsi sul sesto motivo del gravame principale: il giudice di primo grado pur avendo abbattuto del 40% l’ammontare del risarcimento calcolato dal c.t.u., adducendo l’esistenza di concause incolpevoli dei danni lamentati dal Condominio (quali la vicinanza della ferrovia, il taglio dell’edificio ed il rifacimento della facciata a seguito della realizzazione sul fiume (…) del ponte della ferrovia nella metà del 1800, con la conseguente mancata posa del cornicione sulla facciata nord rifatta), aveva condannato la DI.MI. al pagamento delle spese tecniche di progetto, direzione lavori, autorizzazioni, calcolate nella percentuale normativa del 15% dell’intero costo di rifacimento dell’intonaco, laddove una pronuncia coerente avrebbe dovuto prendere come parametro di calcolo solo il 60% di tale costo.
Con il sesto motivo di gravame la ricorrente – appellante ha censurato proprio detto ragionamento, in ordine al quale nulla ha detto la corte distrettuale, limitando il suo accertamento ai primi cinque motivi. La censura conclude con la formulazione del seguente quesito di diritto: “Viola o applica falsamente l’art. 112 c.p.c. il giudice di merito che ometta sostanzialmente di pronunciare sulla domanda o su uno specifico motivo di appello l’accoglimento del quale avrebbe comportato una riforma parziale della sentenza di primo grado a favore dell’appellante perlomeno in punto quantum debeatur e conseguentemente dia luogo ad un difetto di attività del giudice di secondo grado: difetto di attività nel quale è incorsa la corte genovese nella fattispecie in esame, nella quale ha omesso di pronunciare sul sesto motivo di appello, in forza del quale la DI.MI. aveva denunciato al giudice di appello il fatto che il Tribunale avesse condannato la società al pagamento delle spese tecniche di progetto, direzione lavori, autorizzazioni nella percentuale del 15% dell’intero costo di rifacimento dell’intonaco, laddove una pronuncia coerente avrebbe dovuto prendere come parametro di calcolo solo il 60% di tale costo, essendo il restante 40% stato abbattuto dal Tribunale in ragione di incolpevoli concause dei danni lamentati dal Condominio attore?”.
L’ultimo motivo di ricorso è fondato.
È incontestato che la corte di merito non abbia assunto alcuna statuizione sulla precisa censura articolata dalla DI.MI. con l’appello principale in ordine all’erronea, in parte qua, quantificazione operata del danno. Segnatamente, dall’esame del sesto motivo dell’atto di gravame – consentito in questa sede per la natura di errar in procedendo del vizio denunciato – emerge che la DI.MI. aveva rilevato l’incoerenza sistematica della decisione in ordine alla determinazione delle spese tecniche accessorie ai lavori di riparazione (di progetto, direzione dei lavori, autorizzazioni), quantificate nella misura del 15% dei costi totali di rifacimento dell’intonaco, pur se riconosciuta la responsabilità imputabile alla stessa venditrice – costuttrice per i danni procurati nei limiti del 60% (addebitato il restante 40% ad altre concause). Sul punto, la corte distrettuale nulla ha dedotto, sicché ricadendo la censura di omessa pronuncia su un punto astrattamente idoneo ad incidere sulla liquidazione del pregiudizio riconosciuto da porre a carico della ricorrente, la doglianza va accolta.
Conclusivamente, vanno rigettati i primi tre motivi di ricorso, accolto il quarto e la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione alla censura accolta, con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Genova affinché il giudice si pronunci sulla specifica doglianza formulata con riferimento al quantum, e segnatamente verifichi in che termini (forfettari e/o percentuali ovvero esclusivamente sulla quota già decurtata al 60%) il giudice di prime cure abbia quantificato le spese accessorie spettanti alla DI.MI. rispetto all’intero importo dei lavori di rifacimento degli intonaci, tenendo conto della percentuale di responsabilità attribuita alla medesima società.
Al giudice del rinvio va rimessa anche la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte, rigettati i primi tre motivi di ricorso, accoglie il quarto;
cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese del giudizio di Cassazione, ad altra Sezione della Corte di appello di Genova.

Cass. Civ., Sez. II, 04/11/2015 n. 22553

lunedì 16 novembre 2015

Vizi e guasti della cosa locata.

Grava sul locatore la garanzia per i vizi della cosa locata  prevista dall’art. 1578 c.c., invero modellata su quella della compravendita, che interviene ogniqualvolta risulti alterato l’equilibrio del sinallagma a cagione dell'inidoneità  all’uso del bene concesso in locazione, alterazione a cui può porsi rimedio esclusivamente con la risoluzione contrattuale ovvero con la riduzione del corrispettivo, restando preclusa in tal caso la esperibilità della azione di esatto adempimento, con la conseguente incompatibilità dei due rimedi anzidetti.
Sull'argomento è più volte intervenuta la Corte Cassazione, affermando che nel novero dei vizi della cosa locata ex art. 1578 c.c. vanno ricompresi quei difetti che riguardano “la struttura materiale della cosa, alterandone la integrità in modo tale da impedirne notevolmente il godimento, secondo la destinazione contrattuale, anche se eliminabili e manifestatisi successivamente alla conclusione del contratto di locazione … fra essi non sono invece ricompresi i guasti o i deterioramenti dovuti alla naturale usura, nel qual caso diviene operante l’obbligo del locatore di provvedere alle necessarie riparazioni ex art 1576 C.C., la cui inosservanza determina inadempimento contrattuale” (Cass. Civ., Sez. III, 15/05/2007 n. 11198; Cass. Civ, Sez. III, 21/11/2011 n. 24459; Cass. Civ., Sez. III, 14/03/2013 n. 6580).
In buona sostanza, costituisce un vizio della cosa locata quel difetto grave e non facilmente eliminabile, se non attraverso un’opera di risanamento comportante un sacrificio economico per il locatore, laddove, per contro, i guasti sono quelle alterazioni transitorie e connaturali all’uso ed al godimento, eliminabili attraverso opere di semplice riparazione.
La distinzione è determinante per discernere se ed in quali limiti possa operare, nei rapporti di locazione, il principio di autotutela previsto dall’art. 1460 c.c., di cui costituisce espressione l’exceptio non rite adimpleti contractus. La peculiarità della disciplina dei vizi nella locazione sta nel fatto che il  vizio è tale ove ed in quanto esso incida concretamente sul godimento del bene, diminuendone  od impedendone la utilizzazione. 
La norma in oggetto, tuttavia, non abilita in nessun caso il conduttore a sospendere il versamento del canone e degli accessori o ad operare la cosiddetta autoriduzione dei medesimi, egli può solo domandare la risoluzione del contratto ovvero una riduzione del corrispettivo, rimanendo devoluta al potere del Giudice la facoltà di valutare l’importanza dello squilibrio tra le prestazioni dei contraenti. Pertanto, in assenza di un provvedimento dell'Autorità Giudiziaria, sia esso anche sommario, giammai il conduttore può assumere di propria sponte iniziative in autotutela.
Fra le ipotesi maggiormente ricorrenti di vizio della cosa locata, rilevante ai fini dell'art. 1578 c.c., la Suprema Corte individua l'umidità dell'immobile dovuta a ragioni strutturali quale quella conseguente a mancante o non adeguata impermeabilizzazione (Cass. Civ., Sez. III, 04/08/1994 n. 7260), la costruzione difettosa degli scarichi fognanti (Cass. Civ., Sez. III, 06/03/1995 n. 2605), l'inutilizzabilità dei servizi igienici per occlusione dello scarico non collegato alla rete fognaria ( Cass. Civ., Sez. III, 28/08/20013 n. 19806), il mancato rilascio della licenza di abitabilità (Cass. Civ. 16/09/1996 n. 8285).
Inoltre, allorquando “il conduttore, all'atto della stipulazione del contratto di locazione, non abbia denunziato i difetti della cosa da lui conosciuti o facilmente riconoscibili, deve ritenersi che abbia implicitamente rinunziato a farli valere, accettando la cosa nello stato in cui risultava al momento della consegna, e non può, pertanto, chiedere la risoluzione del contratto o la riduzione del canone, né il risarcimento del danno o l'esatto adempimento, né avvalersi dell'eccezione di cui all'art. 1460 cod. civ., dal momento che non si può escludere che il conduttore ritenga di realizzare i suoi interessi assumendosi il rischio economico dell'eventuale riduzione dell'uso pattuito ovvero accollandosi l'onere delle spese necessarie per adeguare l'immobile locato all'uso convenuto, in cambio di un canone inferiore rispetto a quello richiesto in condizioni di perfetta idoneità del bene al predetto uso"(Cass. Civ., Sez. III, 01/12/2009 n. 25278; Cass. Civ., Sez. III, 20/07/2010 n. 16900). 
In sintesi, affinché possa divenire operativa la garanzia prevista nell'art. 1578 c.c. è necessario che:
a) si sia in presenza di vizi strutturali che impediscano l'effettivo godimento del bene e non di semplici guasti o deterioramenti dovuti all'ordinaria usura, la cui risoluzione necessita di interventi di manutenzione di routine;
b) il vizio non sia né conosciuto né facilmente conoscibile dal conduttore né, in egual misura, lo stesso deve essersi accollato il rischio dell'intervento ovvero l'onere delle spese necessarie.

domenica 1 novembre 2015

Stato di insolvenza ai fini della dichiarazione di fallimento.

Fermi restando i requisiti dimensionali fissati dall'art. 1 L.F., presupposto indefettibile affinché l'imprenditore possa fallire, ai sensi del successivo art. 5, è lo stato d'insolvenza in cui questo deve versare, tenendo ben presente che l'equazione "pignoramento negativo uguale stato di insolvenza" non appare condivisibile.
Dottrina e giurisprudenza nel corso degli anni ci hanno insegnato che l'insolvenza rappresenta uno status da valutarsi in termini prospettici e dinamici, dovendo l'analisi tassativamente ampliarsi ad una stima globale, sia quantitativa che qualitativa, dei debiti e dei crediti.
Ne consegue che l'inadempimento in sé non rappresenta l'essenza stessa dell'insolvenza e non ne comporta automaticamente l'esistenza, ben potendo l'imprenditore non aver onorato il proprio debito per motivi diversi dall'incapacità a far fronte ad esso.
Viene cosi richiesto, ai fini dello stato di decozione che giustifica la procedura concorsuale, un quid pluris che deve essere individuato nel non essere più in grado l'imprenditore di adempiere regolarmente alle obbligazioni poste a suo carico, con mezzi propri o forniti da terzi, trattandosi di una situazione manifesta ed irreversibile e non già di una mera impossibilità temporanea.
Il richiamato art. 5 L.F. da più parti è stato definito come una “norma aperta”, che non definisce un vero e proprio modello e che ha indotto dottrina è giurisprudenza ad individuare una serie di elementi, solitamente in concorso, indicatori dello stato di insolvenza; sebbene tale elencazione non possa dirsi esaustiva, potendosi lo stato di insolvenza comunque desumersi anche da altri fattori, appresso sembra opportuno richiamare i più importanti fra loro, onde poterli utilizzare come chiavi di lettura della fattispecie concreta. 
Essi possono individuarsi:
  • nell'assenza persistente di utili e nella contemporanea presenza di perdite;
  • nella mancanza prolungata di liquidità;
  • in un elevato indebitamento con i creditori istituzionali;
  • nel mancato godimento del credito bancario ed ancor più nella revoca del fido e delle linee di credito;
  • nell'utilizzo degli affidamenti bancari oltre i limiti concessi e nei solleciti al rientro nei limiti degli affidamenti;
  • in un rapporto sbilanciato fra attivo e passivo;
  • nella consistenza negativa del patrimonio netto;
  • nell'impossibilità di continuare l'attività d'impresa in modo proficuo;
  • nel  consolidamento e stagnazione del debito;
  • nell'utilizzo di mezzi anomali di pagamento;
  • nei ripetuti rinnovi cambiari;
  • nell'essere protestato e/o iscritto negli elenchi dei cattivi pagatori;
  • nella restituzione di merce acquistata non dovuta a vizi o difetti della medesima;
  • nell'essere sottoposto a più procedure esecutive.