lunedì 29 settembre 2014

Esecuzione del contratto e danni a terzi: le condizioni per un giudizio di responsabilità del committente

 La Suprema Corte ha ribadito principi e condizioni che legittimano una corresponsabilità del committente per i danni a terzi in caso di esecuzione di lavori dati in appalto.
In tema di appalto, è di regola l'appaltatore che risponde dei danni provocati a terzi ed eventualmente anche dell'inosservanza della legge penale durante l'esecuzione del contratto, attesa l'autonomia con cui egli svolge la sua attività nell'esecuzione dell'opera o del servizio appaltato, organizzandone i mezzi necessari, curandone le modalità ed obbligandosi a fornire alla controparte l'opera o il servizio cui si era obbligato. Il controllo e la sorveglianza del committente, invece, si limitano all'accertamento ed alla verifica della corrispondenza dell'opera o del servizio affidato all'appaltatore con quanto costituisca l'oggetto del contratto. In tale contesto, una responsabilità del committente nei riguardi dei terzi risulta configurabile solo allorquando si dimostri che il fatto lesivo sia stato commesso dall'appaltatore in esecuzione di un ordine impartitogli dal direttore dei lavori o da altro rappresentante del committente stesso, tanto che l'appaltatore finisca per agire quale "nudus minister" privo dell'autonomia che normalmente gli compete. Inoltre, è stata riconosciuta una responsabilità del committente quando sia configurabile in capo al medesimo una "culpa in eligendo", per aver affidato il lavoro ad impresa che palesemente difettava delle necessarie capacità tecniche, ovvero in base al generale principio del "neminem laedere" di cui all'art. 2043 c.c. Tali principi, già enunciati in precedenti decisioni, sono stati ora ribaditi.
Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto esente da censure la sentenza impugnata con la quale la corte del merito, nell'ambito di un contratto di appalto di lavori di ristrutturazione di uno stabile condominiale ed in parziale riforma della pronuncia di primo grado, aveva rigettato la domanda di risarcimento danni proposta dal condomino danneggiato nei confronti del Condominio, mantenendo tuttavia ferma la condanna emessa a carico dell'appaltatore.
Cass. Civ., Sez. III, 19 settembre 2014, n. 19742

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mercoledì 24 settembre 2014

Compravendita: la volontà di concludere il negozio deve risultare inequivocabilmente dall'atto.

Ai fini della configurabilità dell'atto scritto richiesto ad substantiam per la validità di una compravendita immobiliare, occorre che in esso risulti inequivocabilmente la manifestazione specifica della volontà di concludere il suddetto contratto, non potendosi ricorrere ad elementi esterni all'atto scritto per accertare l'esistenza di tale volontà.
In tema di compravendita immobiliare, l'atto deve essere stipulato, ai sensi dell'art. 1350, n. 1, c.c., in forma scritta richiesta "ad substantiam", e tale esigenza comporta che l'atto scritto suddetto deve essere rappresentato non da un qualsiasi documento da cui risulti la precedente stipulazione, ma da uno scritto che contenga la manifestazione della volontà di concludere il contratto e che sia posto in essere al fine specifico di manifestare tale volontà. In altri termini, ai fini della configurabilità dell'atto scritto richiesto "ad substantiam" per la validità di una compravendita immobiliare, occorre che in esso risulti inequivocabilmente la manifestazione specifica della volontà di concludere il suddetto contratto, con la conseguenza che non è possibile ricorrere ad elementi esterni all'atto scritto per accertare l'esistenza di tale volontà. Tali principi sono stati espressi dal giudice di legittimità in una recente pronuncia relativa ad un controversia tutta incentrata sulla corretta qualificazione ed interpretazione di una scrittura privata.
In particolare, specifica la Corte in conformità ad alcuni precedenti, proprio sulla base del principio che per i contratti aventi ad oggetto il trasferimento della proprietà immobiliare, per i quali è richiesta la forma scritta "ad substantiam", l'atto scritto costituisce lo strumento necessario ed insostituibile per la valida manifestazione della volontà produttiva del negozio, si evince che la manifestazione scritta della volontà di uno dei contraenti non può essere sostituita da una dichiarazione confessoria dell'altra parte, non valendo tale dichiarazione né quale elemento integrante il contratto, né -quand'anche contenga il preciso riferimento ad un contratto concluso per iscritto- come prova del medesimo.
Cass. Civ., Sez. II, 16 settembre 2014, n. 19488

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martedì 23 settembre 2014

Donazione indiretta: è decisivo il nesso tra donazione del denaro e acquisto immobiliare.

Nel caso di soggetto che abbia erogato il denaro per l'acquisto di un immobile in capo ad uno dei figli si deve distinguere l'ipotesi della donazione diretta del denaro, impiegato successivamente dal figlio in un acquisto immobiliare, in cui, ovviamente, oggetto della donazione rimane il denaro stesso, da quella in cui il donante fornisce il denaro quale mezzo per l'acquisto dell'immobile, che costituisce il fine della donazione. In tal caso, il collegamento tra l'elargizione del denaro paterno e l'acquisto del bene immobile da parte del figlio porta a concludere che si è in presenza di una donazione (indiretta) dello stesso immobile e non del denaro impiegato per il suo acquisto.
Per integrare la fattispecie della donazione indiretta, è necessario che la dazione della somma di denaro sia effettuata quale mezzo per l'unico e specifico fine dell'acquisto dell'immobile: deve, cioè, sussistere incontrovertibilmente un collegamento teleologico tra elargizione del denaro e acquisto dell'immobile.
Il principio, già enunciato dal giudice di legittimità, è stato ribadito in una recente sentenza. Nel caso poi di soggetto che abbia erogato il denaro per l'acquisto di un immobile in capo ad uno dei figli, precisa la Suprema Corte in conformità alla propria giurisprudenza, si deve distinguere l'ipotesi della donazione diretta del denaro, impiegato successivamente dal figlio in un acquisto immobiliare, in cui, ovviamente, oggetto della donazione rimane il denaro stesso, da quella in cui il donante fornisce il denaro quale mezzo per l'acquisto dell'immobile, che costituisce il fine della donazione. In tal caso, il collegamento tra l'elargizione del denaro paterno e l'acquisto del bene immobile da parte del figlio porta a concludere che si è in presenza di una donazione indiretta dello stesso immobile e non del denaro impiegato per il suo acquisto.
Nel caso in esame, la Suprema Corte ha cassato con rinvio la pronuncia impugnata dalla ricorrente donataria in quanto la corte territoriale, pur ritenendo provata, in base ad una presunzione basata su elementi oggettivi e concordanti, la provenienza della somma di danaro impiegata nell'acquisto immobiliare, non aveva fornito alcuna motivazione sul fatto che il denaro in oggetto fosse stato elargito dai genitori all'unico scopo di rendere possibile l'acquisto.
Cass. Civ., Sez. VI, 2 settembre 2014, n. 18541

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Mutuo fondiario: lecito il negozio stipulato per onorare debiti pregressi verso la banca mutuante

Tra le finalità di un'operazione di credito fondiario rientra anche quella dell'utilizzazione delle somme ottenute per estinguere un debito precedente verso la stessa banca concedente il finanziamento, non essendo ravvisabile, in tale ipotesi, un uso distorto dello strumento del mutuo fondiario.


Deve ritenersi la liceità del mutuo fondiario ove la somma mutuata sia, in tutto o in parte, utilizzata dal mutuatario per sanare passività pregresse, anche nei confronti dell'istituto di credito mutuante. Il principio è stato espressamente ribadito dal giudice di legittimità in una recente pronuncia.
Il mutuo fondiario, precisa la Suprema Corte, non è mutuo di scopo, non risultando per la relativa validità previsto che la somma erogata dall'istituto mutuante debba essere necessariamente destinata ad una specifica finalità che il mutuatario sia tenuto a perseguire, né l'istituto mutuante deve controllare l'utilizzazione che viene fatta della somma erogata, risultando piuttosto connotato dalla possibilità di prestazione da parte del proprietario di immobili, rustici o urbani, a garanzia ipotecaria.
Ed invero, essendo il contratto di credito fondiario connotato dalla concessione, da parte di banche, di finanziamenti a medio e lungo termine garantiti da ipoteca di primo grado su immobili -art. 38 del T.U.B.- lo scopo del finanziamento non entra nella causa del contratto, che è data dall'immediata disponibilità di denaro a fronte della concessione di garanzia ipotecaria immobiliare, con restituzione della somma oltre il breve termine (nei limiti ed alle condizioni previste dalla normativa secondaria di settore); laddove, invece, nel mutuo di scopo, legale o convenzionale, la destinazione delle somme mutuate è parte inscindibile del regolamento di interessi e l'impegno assunto dal mutuatario ha rilevanza corrispettiva nell'attribuzione della somma, quindi rilievo causale nell'economia del contratto. Pertanto, conclude la Cassazione, è lecito il contratto di mutuo fondiario stipulato dal mutuatario, ai sensi dell'art. 38 del T.U.B., per sanare debiti pregressi verso la banca mutuante.
Cass. Civ., Sez. III, 12 settembre 2014, n. 19282

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Revocatoria fallimentare: in caso di preliminare, la sproporzione tra le prestazioni va valutata in riferimento al contratto definitivo.

Nell'ipotesi di revocatoria fallimentare di un atto di compravendita preceduto dalla stipula di un contratto preliminare, la sproporzione tra le prestazioni deve essere valutata con riferimento al momento della conclusione del contratto definitivo, essendo tale negozio a determinare l'effettivo passaggio della proprietà, e a tal momento occorre riferirsi per la determinazione del valore venale del bene.
In tema di revocatoria fallimentare di compravendita stipulata in adempimento di contratto preliminare, l'accertamento dei relativi presupposti va compiuto con riferimento alla data del contratto definitivo, in quanto l'art. 67 della legge fallimentare ricollega la consapevolezza dell'insolvenza al momento in cui il bene, uscendo dal patrimonio, viene sottratto alla garanzia dei creditori, rendendo irrilevante lo stato soggettivo con cui è assunta l'obbligazione, di cui l'atto finale comporta esecuzione, salvo che ne sia provato il carattere fraudolento; inoltre, qualora nel momento fissato per la stipulazione del contratto definitivo, sussista pericolo di revoca dell'acquisto per la sopravvenuta insolvenza del promittente venditore, il promissario acquirente ha la facoltà di non addivenire alla stipulazione, invocando la tutela dell'art. 1461 c.c. Il principio, già enunciato dal giudice di legittimità, è stato espressamente ribadito in una recente decisione.
Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto non censurabile la sentenza con la quale la corte territoriale aveva confermato la pronuncia del tribunale di accoglimento dell'azione revocatoria dell'atto di alienazione immobiliare proposta dal curatore del Fallimento di una società in stato di liquidazione poi dichiarata fallita.
Cass. Civ., Sez. I, 12 settembre 2014, n. 19314

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